[Milano] “Correvo pensando ad Anna” a Gratosoglio e il saluto del (n)PCI

Rilanciamo a seguire la lettera di saluti di Ulisse, segretario generale del (nuovo) PCI, inviata ai compagni della sezione di Gratosoglio (MI), in occasione della presentazione del libro di Pasquale Abbatangelo “Correvo pensando ad Anna” che si terrà il prossimo 4 febbraio al GTA – Gratosoglio Autogestita, alle ore 18. Quanto scrive Ulisse è esempio importante di come l’esperienza degli anni 70 sia strumento utile alla lotta di classe in corso e alla lotta alle idee sbagliate. Buona lettura!

***

Cari compagni,

vi ringrazio per averci dato la possibilità di intervenire alla presentazione del libro del compagno Pasquale Abatangelo e anzitutto esprimo al compagno la partecipazione mia e del (nuovo)Partito comunista italiano al suo lutto e gli auguro di trarne incitamento a portare a fondo la lotta che con Anna per tanti anni ha condotto.

Il tema che affrontate oggi ha un aspetto su cui richiamo la vostra attenzione, un aspetto particolarmente importante stante le circostanze generali in cui viviamo e anche la campagna elettorale per rinnovare, con il voto del 4 marzo, quello a cui la Repubblica Pontificia ha ridotto le istituzioni rappresentative della volontà popolare inscritte nella Costituzione del 1948.

Giusto pochi giorni fa in un articolo pubblicato il 20 gennaio sul giornale on line La Città Futura che fa capo a un gruppo di membri del PRC e firmato da Sergio Cimino era scritto che nel progetto dei promotori della lista elettorale Potere al Popolo è insita una “combinazione di fattori che possono non solo condurre alla riacquisizione di spazi di rappresentanza politica da parte delle classi popolari (elezioni come mezzo e non come fine), ma anche e soprattutto a riannodare i fili di una storia interrotta con la fine degli anni ’70 del secolo scorso, in cui il corpo a corpo ingaggiato con le classi dominanti, produsse uno scintillio che non divampò nell’incendio rivoluzionario, solo perché vinto da una delle più brutali repressioni avvenute in uno Stato di diritto”.

La tesi enunciata da Sergio Cimino, che la lotta armata degli anni ’70 non raggiunse il suo obiettivo a causa della feroce repressione fatta dalla borghesia, a prima vista sembra molto “rivoluzionaria”. In effetti, in contrasto con il legalitarismo e la fiducia nella Repubblica Pontificia correnti, Cimino denuncia che le autorità della Repubblica Pontificia non hanno remore a violare le loro stesse leggi e i principi e valori (i “diritti umani”) che proclamano.  È del tutto vero che per difendere i loro interessi dall’attacco del movimento comunista e delle masse popolari, negli anni ’70 contro le Brigate Rosse hanno fatto ricorso ad azioni criminali (dalla strage di via Fracchia a Genova alla tortura di De Lenardo e altri compagni) e alla delazione (es. Guido Rossa) promossa dai revisionisti moderni diretti da Enrico Berlinguer, Giorgio Napolitano e simili.

Ma, se ci riflettiamo, la tesi enunciata da Cimino è smentita dall’esperienza storica dell’intera umanità: se la ferocia e la mancanza di scrupoli delle classi dominanti bastassero a sconfiggere un movimento rivoluzionario, non vi sarebbero state tutte le rivoluzioni vittoriose che ci sono state e grazie alle quali l’umanità è progredita.

Ed è una tesi disfattista, perché soffoca la fiducia nella vittoria della rivoluzione socialista di cui oggi l’umanità ha bisogno, la fiducia nella possibilità di vincere senza la quale le forze rivoluzionarie non si sviluppano. La possibilità di progresso in ultima analisi dipenderebbe dalla buona volontà della borghesia.

L’iniziativa in corso vi offre la possibilità di discutere, addirittura alla presenza di uno dei protagonisti, quali furono i reali fattori che impedirono ai compagni delle Brigate Rosse di portare a fondo il loro progetto di ricostruire il Partito comunista tramite la propaganda armata. Il progetto di ricostruire tramite la propaganda armata il Partito comunista che aveva promosso la vittoriosa Resistenza degli anni 1943-1945 contro il nazifascismo e che i revisionisti moderni capeggiati da Palmiro Togliatti avevano prostituito alla Repubblica Pontificia, è il tratto che distinse le Brigate Rosse da tutte le altre numerose Organizzazioni Comuniste Combattenti degli anni ’70. Attorno a questo progetto, approfittando giustamente delle condizioni particolari createsi agli inizi degli anni ’70, le Brigate Rosse avevano aggregato la parte più avanzata del proletariato italiano. Esse furono sconfitte perché non avevano assimilato a sufficienza la concezione comunista del mondo, il materialismo dialettico, che vuol dire analisi concreta delle situazione concreta e adozione, tra le varie forme della lotta di classe, di quelle più adatte alla mobilitazione rivoluzionaria delle masse popolari nella situazione concreta. Infatti, quando per effetto dell’inizio della nuova crisi generale per sovraccumulazione assoluta di capitale la borghesia passò dal capitalismo dal volto umano all’eliminazione delle conquiste strappate dalle masse popolari sulla scia della prima ondata della rivoluzione proletaria, le Brigate Rosse insistettero sulla lotta armata come forma principale se non unica, se non addirittura come strategia della lotta di classe e quindi deviarono come le altre Organizzazioni Comunista Combattenti nel militarismo. Per questo non riuscirono più a far fronte vittoriosamente alla borghesia e alla ferocia della criminale repressione scatenata dalla borghesia capeggiata da Andreotti e Berlinguer.

Già gli autori di Politica e rivoluzione (1983) avevano messo in luce quel limite  delle Brigate Rosse.

L’analisi delle vicende di quegli anni e la dimostrazione della conclusione che ho indicato sono esposte in dettaglio in Cristoforo Colombo (1988) e in numerosi Comunicati del (nuovo)Partito comunista italiano e articoli di La Voce. Rimando a queste fonti i compagni che decideranno di approfondire l’argomento.

Consapevoli di questo bilancio, nel primo numero di La Voce (marzo 1999) abbiamo lanciato ai compagni delle Brigate Rosse e delle altre Organizzazioni Comuniste Combattenti l’appello a contribuire alla ricostruzione del Partito e alla rivoluzione socialista. È questa la via per valorizzare il prestigio che essi hanno ancora oggi e che fa dei rivoluzionari, prigionieri e non,  protagonisti della lotta armata degli anni ’70  una forza politica.

Perché le buone dichiarazioni sulle “elezioni come mezzo e non come fine” non risultino un imbroglio come le tante belle promesse elettorali, bisogna combattere i bilanci sbagliati e disfattisti tipo quello di Cimino e propagandare anche nella campagna elettorale il giusto bilancio degli anni ’70, a insegnamento per la lotta che conduciamo in questi giorni e in questi anni.

La vittoria della rivoluzione socialista dipende da noi. Non è la borghesia che è forte, sono le masse popolari che non hanno ancora pienamente dispiegato la loro forza perché il Partito comunista è ancora debole. È quindi a contribuire a rafforzare il Partito comunista che chiamo ognuno di voi. Possiamo vincere perché la nostra causa è la causa di tutti i lavoratori e di tutte le persone di buona volontà. Sono gli uomini e le donne che fanno la storia dell’umanità. Grazie al marxismo-leninismo-maoismo siamo in grado di cambiare il corso delle cose e di costruire il nostro futuro.

Avanti dunque compagni! Il nostro futuro è nelle nostre mani.

Il compagno Ulisse, segretario generale del CC del (n)PCI

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