Il 18 dicembre a Napoli il PCI-Alboresi ha ricordato con un’iniziativa pubblica la figura di Emilio Sereni, dirigente del vecchio Partito Comunista Italiano di cui fu membro del Comitato Centrale fino alla morte nel 1977
L’iniziativa promossa il 18 dicembre dai compagni del PCI–Alboresi ha l’importante pregio di spingersi nell’opera di ricordare figure ed esponenti del movimento comunista del nostro paese, favorendo l’occasione di tirare un bilancio di quelle esperienze e al contempo di trarne insegnamenti utili per la rinascita del movimento comunista e la costruzione della rivoluzione socialista oggi. I punti stessi su cui i compagni hanno incentrato il proprio dibattito sono estremamente importanti per comprendere l’analisi del nostro paese e della lotta tra le classi in esso presente. In particolare questo si è evinto dal titolo dell’incontro: “Emilio Sereni dirigente comunista, intellettuale, meridionalista”.
La figura di Emilio Sereni è particolarmente importante per analizzare vari aspetti della storia del movimento comunista del nostro paese, in particolare legati alla Resistenza, all’avvento dei revisionisti alla guida del PCI e alla questione meridionale, tutti aspetti da cui è importante attingere insegnamenti giusti che ci permettano di avanzare nella costruzione della rivoluzione socialista nel nostro paese. Di questo parleremo in questo articolo, che vuole essere un ulteriore contributo alla discussione del 18 dicembre, alla quale come Partito dei CARC abbiamo partecipato direttamente. Con questo testo intendiamo, in definitiva, raccogliere gli spunti emersi dalla discussione, dare seguito a quella giornata e alimentare il proficuo confronto con i compagni sul bilancio del movimento comunista e sulla strada da perseguire oggi per la sua rinascita.
Quando parliamo di Emilio Sereni non si può non parlare del suo ruolo avuto nella Resistenza e quindi inquadrare quel periodo storico fondamentale per la storia della lotta di classe italiana. All’inizio degli anni ’20 la borghesia italiana (con la Monarchia e il Vaticano) non aveva trovato altro modo di venire a capo della ribellione degli operai, dei contadini e degli artigiani, che affidare il potere al fascismo e al suo caporione, Benito Mussolini. Coerentemente con la sua natura di mobilitazione reazionaria delle masse popolari e di dittatura terroristica della borghesia imperialista, il fascismo coinvolse l’Italia in una successione di guerre e infine nella Seconda Guerra Mondiale: venne quindi sconfitto e travolto. A seguito di ciò la borghesia risultò fortemente sminuita nel suo potere e nella sua influenza sulle masse popolari, la Monarchia fu addirittura rovesciata e anche il Vaticano si trovò in difficoltà per le sua collusione col fascismo. Il ruolo che nel nostro paese aveva avuto il movimento comunista mobilitando la classe operaia, i contadini, gli artigiani e gli intellettuali rivoluzionari nella Resistenza, unito al ruolo svolto a livello internazionale dall’Unione Sovietica e dal movimento comunista nella sconfitta del nazifascismo, portarono il movimento comunista al punto più alto di forza e di potere che abbia mai raggiunto nel nostro paese. Il PCI divenne l’effettivo Stato Maggiore della classe operaia nella sua lotta contro la borghesia. Emilio Sereni, come detto, è stato senza dubbio uno dei maggiori protagonisti dello sviluppo della Resistenza in Italia, attraversandola da dirigente del Partito Comunista Italiano e del CLN della Lombardia.
Il ruolo di avanguardia della classe operaia per il PCI non cadde certo dal cielo, esso fu il prodotto di una serie di scelte, molte delle quali dettate dallo stato di necessità che quella fase imponeva, che però riuscirono a dare al partito gli strumenti adatti a dirigere le masse popolari nella Resistenza, di costruire e organizzare una fitta rete di nuove autorità pubbliche che via via presero in mano il governo di interi pezzi di paese. Queste nuove autorità pubbliche nella Resistenza erano i CLN, il Partito comunista le dirigeva e orientava sia direttamente (perché furono i comunisti e parte dei socialisti i principali, non gli unici, animatori di quel processo) sia indirettamente attraverso la politica da fronte con altre forze politiche. Quando il PCI, nella clandestinità, si è occupato di questo si è sviluppato in avanti e con esso si è sviluppata la tenacia, la combattività e la forza delle masse popolari. Solo così si spiega la capacità di direzione e il ruolo assunto dal PCI nelle insurrezioni che spazzarono via le truppe nazifasciste. Sono questi episodi raccontati molto dettagliatamente da Sereni in molti suoi scritti, di cui se ne consiglia la lettura: in particolare “L’antifascismo nelle trincee, in Trent’anni di storia italiana, 1915-1945. Dall’antifascismo alla Resistenza”.
Ma allora dov’è che Togliatti, Sereni e il resto della testa del PCI hanno sbagliato? Perché non si è fatta la rivoluzione socialista dopo la Resistenza? Per dare risposta esauriente la domanda principale da porsi è però la seguente: qual era la linea del PCI all’indomani della vittoria contro i nazifascisti? Ad illustrarcela bene è proprio Emilio Sereni in un suo opuscolo: “C.N.L. Il Comitato di Liberazione Nazionale della Lombardia al lavoro – nella cospirazione, nell’insurrezione, nella ricostruzione”. Di questo abbiamo parlato in un articolo pubblicato su Resistenza nei mesi di novembre e dicembre 2017, dal titolo “Si sente la mancanza del vecchio PCI nonostante i suoi limiti? No, si sente la necessità di un partito comunista che superi quei limiti”. Nell’articolo di Resistenza emerge bene come nel suo scritto del luglio-agosto 1945, a tre mesi dalla Liberazione, Sereni indichi come via per procedere quella di “ricostruire tutti insieme l’apparato economico italiano come era prima della guerra”. Nello stesso scritto proclama che l’interesse nazionale, comune a tutti, può e deve ispirare tutti. Tutti devono mettere da parte i loro “egoistici interessi” e le proprie “ristrette e grette vedute” di fronte all’interesse nazionale, comune. Non vede in quello che scrive, Sereni, che da sempre le classi dominanti presentano, dipingono, travestono, consacrano i loro interessi come interessi generali, di tutta la società che essi dominano e sfruttano. Gli individui più arretrati e le parti più arretrate delle classi oppresse subiscono, assimilano questa mistificazione, la fanno propria (il nostro re, il nostro padrone, la nostra fabbrica, la nostra città, ecc.) salvo in certi momenti e circostanze rivoltarsi furiosamente e ciecamente. Il compito del partito rivoluzionario è quello di aprire loro gli occhi, mettere in luce agli occhi delle classi oppresse l’antagonismo dei loro interessi con quelli dei padroni, mostrare loro che i padroni non agiscono come agiscono per caso o per ignoranza, ma per interessi e a ragion veduta, organizzarli per far valere i propri interessi, per imporre un sistema sociale senza padroni. Chi sorvola sull’antagonismo di interessi non imbroglia i padroni: questi dei loro interessi hanno una coscienza ben più chiara di quella che le masse popolari hanno dei propri. Essi sono abituati a farli valere al punto che, con l’educazione, le abitudini e le condizioni in cui costringono le masse popolari a vivere, le hanno indotte a considerarli come naturali e legge divina. Chi sorvola sull’antagonismo di interessi imbroglia gli oppressi, impedisce che si armino, aggrava lo sforzo che devono fare e che già hanno difficoltà a fare, contrappone la parte più arretrata delle masse popolari alla parte più avanzata.
Anche la proposta di tenere i CLN, come organismi interpartito e di massa a livello nazionale, regionale provinciale e locale anche dopo la Resistenza è stato un limite del PCI che è possibile evincere dallo scritto di Sereni, il quale non li concepiva come soluzione provvisoria giusta finché il compito principale era vincere i nazifascisti, ma come organi della collaborazione strategica (a tempo indeterminato) delle masse popolari con quella parte della borghesia e del clero che, vista la mala parata della guerra, ha rotto con il nazifascismo che avevano coltivato fino a ieri e si è schierata con gli angloamericani. Il fatto che il paese si sarebbe ricostruito spinti da un interesse nazionale e dalla mobilitazione delle masse popolari era un’illusione. Alla ricostruzione, borghesia e clero procedono solo quando i loro interessi lo richiedono: non l’iniziativa delle masse popolari, ma il capitale USA e il suo piano Marshall sono i motori della ricostruzione, ne dettano regole e tempi.
Proporsi e proporre agli operai nell’agosto 1945, a vittoria della Resistenza conquistata, di ricostruire l’apparato economico italiano come era prima della guerra era contrario agli interessi delle masse popolari. La collaborazione fra operai e padroni ha portato, e non poteva che portare, al dominio dei padroni. Era sbagliato e utopistico da parte del PCI predicare, invocare e cercare di praticare e far praticare agli operai la collaborazione come regola generale e indirizzo strategico. Il limite di quel PC, finito sotto la guida della corrente subalterna alla borghesia (revisionista), fu che non prendendo la linea di mobilitare le masse popolari, che già aveva mobilitato con successo a fare la guerra contro i fascisti e i nazisti, perché prendessero nelle loro mani la ricostruzione del paese e la facessero alla loro maniera e accettando al contrario di fare del terreno governativo parlamentare il terreno principale di scontro tra le forze democratiche e le forze reazionarie, il movimento comunista era in balia dei ricatti (scissione sindacale e delle altre organizzazioni di massa) e delle minacce (guerra civile e intervento straniero) delle forze reazionarie raggruppate nella DC e attorno ad essa. La responsabilità principale di questo fallimento sta soprattutto nella sinistra interna a quel PCI, che aveva tra i suoi esponenti più autorevoli in Pietro Secchia, la quale aveva in testa l’idea del fallimento verso cui Togliatti e i suoi stavano trainando il Partito e milioni di elementi delle masse popolari ma non seppero contrapporre una proposta e una linea credibile (quella appunto di mobilitare la classe operaia e il resto delle masse popolari a ricostruire il paese con le proprie mani e secondo i loro interessi di classe).
Il libro di Emilio Sereni “Il capitalismo nelle campagne (1860-1900)”, scritto nel 1936-1937, ma pubblicato nel 1947, è un’opera importante per capire la combinazione della borghesia con i nobili e il clero – il Vaticano – contro i contadini che determinò il carattere specifico dello Stato della borghesia italiana dalla sua creazione nel 1861). Da questo scritto si evince bene come l’anomalia italiana sia legata alla storia particolare del nostro paese, in cui il ruolo della Chiesa e l’influenza che questa ha saputo sviluppare sulla borghesia italiana e sui contadini, ha rallentato lo sviluppo del modo di produzione capitalista.
Per non essere sovrastata come cuore pulsante del mondo feudale ad opera della nascente borghesia italiana, la Chiesa già intorno al 1500 con la Controriforma bloccò nella penisola lo sviluppo dei rapporti di produzione capitalisti e represse in vari modi l’attività imprenditoriale della borghesia. L’economia nella penisola risultò ovunque fondata su una massa di contadini tagliati fuori dall’attività mercantile che producevano in modo primitivo e nell’ambito di rapporti servili quanto era loro necessario per vivere e quanto dovevano consegnare ai proprietari, al clero e alle Autorità.
Politicamente l’Italia rimase così divisa in vari Stati. Ognuno di essi divenne sempre più una versione arretrata e su scala minore delle monarchie assolute del resto d’Europa. L’Italia costituisce quindi un esempio storico di come, quando un paese ha sviluppato un modo di produzione superiore, se la lotta tra le classi che sono portatrici del vecchio e del nuovo modo di produzione non si conclude con una trasformazione rivoluzionaria dell’intera società, essa si conclude con la comune rovina delle due classi.
Anche come Stato unico e indipendente, l’Italia è stata creata poco più di 150 anni fa, tra il 1848 e il 1870, quando il regno dei Savoia venne esteso all’intera penisola. La borghesia che diresse l’unificazione ha dato il nome di “Risorgimento” a questo periodo e alla sua opera. Con questa pomposa denominazione essa ha preteso rappresentare nell’immaginaria resurrezione di una nazione che non era mai esistita, l’opera di costruzione di una nazione che non poteva compiere nella realtà perché avrebbe richiesto la mobilitazione della massa della popolazione. Il limite della sinistra della borghesia (mazziniani e garibaldini), fu quello di non mobilitare i contadini e le masse popolari contro le classi feudali, finendo ingoiata dalla destra della borghesia che invece trovò nuova sintesi politica alleandosi con le vecchie classi feudali.
In tal senso è opportuno dire che il “meridionalismo” non è un’analisi scientifica della realtà. Non è nell’esaltazione di un sistema precedente a quello capitalista che si sviluppa in avanti il processo rivoluzionario, come non è in nuove e creative definizioni di “popolo” che va scovata la motivazione per cui sentirsi meridionali. La questione centrale è l’anomalia italiana e il ruolo che il Vaticano di freno allo sviluppo economico, politico e culturale che ha avuto in Italia. Definire Sereni un meridionalista non rende giustizia neanche alla propensione che questo compagno romano (che ha a lungo militato in Lombardia e in Campania) ha mostrato nell’analizzare le condizioni oggettive e soggettive del nostro paese. La questione meridionale è un derivato dell’anomalia italiana.
La storia, gli scritti, i pregi e gli errori di Emilio Sereni, che in questo articolo abbiamo brevemente cercato di analizzare, sono tutti inseriti nella storia del movimento politico del nostro paese e del movimento comunista. In particolare, l’esperienza della Resistenza e la sconfitta che ad essa seguì sono elementi tutt’oggi di dibattito tra tutti quei compagni che confrontano l’esperienza di allora con la situazione in cui siamo oggi e non sanno spiegarsi come è stato possibile che la rivoluzione socialista non abbia trionfato anche in Italia. Queste domande e queste risposte mancanti soffocano in tanti la volontà di reagire al corso attuale delle cose, provoca disfattismo e attendismo. Ragionare sul perché durante la prima parte del secolo scorso nessuno dei partiti comunisti dei paesi imperialisti ha instaurato il socialismo nel proprio paese, perché la prima ondata della rivoluzione socialista si è esaurita e i primi paesi socialisti si sono, sia pure in misure, in forme e in posizioni diverse, reintegrati nel sistema imperialista mondiale e perché le masse popolari dei paesi imperialisti hanno perso le conquiste che avevano strappato alla borghesia imperialista e al suo clero, è quanto in queste occasioni bisogna fare per fare un servizio alla causa della rinascita del movimento comunista oggi.
A tutte queste domande, a seguito di un’elaborazione che va avanti da oltre trent’anni la Carovana del (nuovo) PCI ha dato delle risposte e formulato delle proposte perché non si ripetano gli errori compiuti dai nostri predecessori, dai comunisti che nella prima parte del secolo scorso in Italia come negli altri paesi imperialisti volevano instaurare il socialismo, ma non superarono nella concezione del mondo i limiti che Lenin e i comunisti russi avevano loro chiesto di superare da quando divenne palese il fallimento della II Internazionale (1914) e poi, più chiaramente e con maggiore precisione, da quando fondarono l’Internazionale Comunista (1919). E di conseguenza, invece di instaurare il socialismo, approdarono al capitalismo dal volto umano (1945-1975) le conquiste del quale si stanno dissolvendo nell’attuale catastrofico corso delle cose.
Tanti sono gli insegnamenti importanti della vittoria dell’Ottobre 1917, della costruzione del socialismo in URSS e della prima ondata della rivoluzione proletaria che questi eventi sollevarono nel mondo. Tanti sono anche gli insegnamenti importanti che noi comunisti possiamo e dobbiamo ricavare dall’esaurimento della prima ondata della rivoluzione proletaria nella seconda parte del secolo scorso, dopo che nel 1956 i revisionisti moderni presero il sopravvento nel Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS). Gli insegnamenti principali, utili alla costruzione della rivoluzione socialista nei paesi imperialisti sono però soltanto due e sono indicati nel Comunicato del Comitato Centrale del (nuovo) Partito Comunista Italiano pubblicato il 27 settembre 2017, dal titolo “A quelli che si dichiarano comunisti, a quelli che vogliono cambiare il mondo, a quelli che vogliono porre fine al catastrofico corso delle cose che la borghesia imperialista impone all’umanità”. Di seguito riproponiamo questi due insegnamenti citando direttamente il comunicato del (n)PCI.
- La rivoluzione socialista ha la forma di una guerra popolare rivoluzionaria di lunga durata promossa dal Partito comunista. Questi nel corso della guerra fa leva sulle lotte spontanee della classe operaia e delle altre classi sfruttate e oppresse dalla borghesia e passo dopo passo le sviluppa, fa avanzare la rivoluzione socialista fino alla vittoria. Il Partito mobilita le classi sfruttate e oppresse, le organizza e le dirige fino a instaurare il socialismo (dittatura del proletariato, gestione pubblica e pianificata dell’attività economica, partecipazione della classe operaia e delle altre classi oggi sfruttate e oppresse alla gestione della vita sociale). La rivoluzione socialista non è l’effetto della propaganda compiuta dal Partito. La propaganda del comunismo è indispensabile per elevare la coscienza degli elementi più avanzati e reclutarli. Ma il Partito fa avanzare le masse popolari facendo leva sul senso comune in cui la loro condizione di oppressione le relega. La rivoluzione socialista non è un evento che scoppia perché le condizioni delle masse popolari peggiorano e la loro insofferenza e il loro malcontento crescono. Non è una rivolta delle masse popolari nel corso della quale il Partito comunista prende nelle sue mani il governo del paese. La rivoluzione socialista non è un evento spontaneo. Tanto meno è una “rivoluzione mondiale” che scoppia contemporaneamente in tutto il mondo a causa del catastrofico corso delle cose che la borghesia impone all’umanità. La combattività delle masse popolari non è una condizione preliminare alla rivoluzione socialista. La combattività delle masse popolari cresce man mano che per propria esperienza esse verificano che il Partito comunista sa dirigerle nella lotta contro l’oppressione e lo sfruttamento. Se il Partito comunista persiste a lungo a dirigere in modo sbagliato, passo dopo passo anche la combattività delle masse popolari si esaurisce e il Partito comunista perde l’egemonia che aveva conquistato, si disgrega o cambia natura: è quello che abbiamo constatato in Italia e nel mondo.
- Il Partito comunista è capace di dare una giusta direzione alla classe operaia e alle altre classi delle masse popolari solo se ha assimilato il marxismo (il materialismo dialettico applicato come metodo per conoscere la società borghese e per trasformarla), lo applica nelle condizioni concrete del proprio paese e del suo contesto internazionale e lo sviluppa. La caratteristica più importante del Partito comunista, la base principale della sua unità e il fattore principale che rende vittoriosa la sua attività, che gli consente di unirsi strettamente alle masse popolari e dirigerle, è la concezione comunista del mondo, la scienza delle attività con le quali gli uomini fanno la loro storia. È la scienza fondata da Marx ed Engels e sviluppata dai maggiori dirigenti del movimento comunista. Essi l’hanno anche verificata nella pratica della prima ondata della rivoluzione proletaria, nella prima parte del secolo scorso. Il Partito comunista non è solo l’eroica organizzazione di lotta, l’organizzazione degli operai d’avanguardia nel promuovere le lotte rivendicative della loro classe e delle altre classi delle masse popolari: esso è principalmente lo Stato Maggiore che promuove e dirige la guerra popolare rivoluzionaria che mira ad instaurare la dittatura del proletariato nel proprio paese e che collabora con i partiti comunisti che promuovono la rivoluzione socialista o la rivoluzione di nuova democrazia negli altri paesi.
Invitiamo i compagni a proseguire questo confronto e di moltiplicare i momenti dedicati a questi temi in tutto il paese. Dal bilancio dell’esperienza della prima ondata della rivoluzione proletaria, dalla lotta ideologica che si lega alla situazione politica attuale e all’analisi scientifica della realtà deriva la pratica e lo sviluppo della rinascita del movimento comunista, del nuovo assalto al cielo!
Marco C.