Pubblichiamo di seguito delle considerazioni scritte da una nostra lettrice in merito ad un articolo sul ruolo dei comunisti e del partito comunista pubblicato dal (nuovo) PCI su “La Voce n.56”. Le riflessioni della compagna sono molto utili: a cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre cosa abbiamo imparato? Che ruolo hanno i comunisti e quale è il rapporto che devono instaurare con le masse popolari? La compagna Laura fa le sue riflessioni in merito alla sua esperienza personale: raccogliamo il suo ottimo contributo ed invitiamo altri ad esprimersi.
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Cari compagni dell’Agenzia Stampa del Partito dei CARC, leggendo l’articolo pubblicato in La Voce (n. 56) I comunisti devono diventare la nuova classe dirigente delle masse popolari, mi sono resa conto di quanto influisca anche su di me il mondo in cui vivo e di quanto io ne sia intossicata, non diversamente dagli altri.
E’ stato, perciò, illuminante dedicarmici sia per la mia formazione politica sia per un’analisi introspettiva.
Nelle prima parte dell’articolo leggevo, velocemente e in maniera superficiale, che la classe dirigente fa fare alle masse popolari quello che spontaneamente queste non fanno e non farebbero. Non considerando, distrattamente, il soggetto dell’articolo, ho pensato, in automatico, alla classe dirigente presente nel nostro Paese (non mi riferisco ad un partito in particolare ma alla classe sociale che tutti, indistintamente, tutelano) e ho fatto la seguente considerazione: “in effetti è così: la casse dirigente alimenta quello che le masse non farebbero: la guerra tra poveri, per esempio”. Perciò mi aspettavo che, nelle righe successive, la classe dirigente comunista si sarebbe rivelata, nel senso contrario, come colei che dà l’opportunità alle masse di fare quello che loro farebbero spontaneamente.
In realtà Ernesto V. (autore dell’articolo) già si stava riferendo alla classe dirigente comunista ma me ne sono resa conto solo dopo. Perciò anche la classe dirigente comunista fa afre alle masse quello che spontaneamente queste non farebbero? Mi sono fermata. Ernesto V. aveva ragione.
Non ho potuto far a meno di constatare:
1) la mia sfiducia istintiva verso il concetto di classe dirigente (l’avevo collegato in automatico al panorama politico esperito);
2) la mia non lucida considerazione delle masse: davo per scontato che queste sapessero spontaneamente cosa fosse meglio per loro.
Non avevo minimamente considerato che esse sono intossicate dal mondo in cui vivono e che non sono pronte a scegliere, paradossalmente, quello che è giusto e conveniente, nell’accezione ciceroniana dei termini secondo la quale essi coincidono, per loro. Le masse, insomma, ad ora, sono quelle che incolpano gli immigrati della crisi italiana, quelli che accettano passivamente di essere calpestati nei loro diritti (in primis il lavoro), quelli che “meglio tu non esponga troppo i tuoi ideali perché potresti avere dei problemi nel lavoro” (mamma docet).
Non ne hanno colpa, ovviamente, ma hanno, ovviamente, bisogno di essere guidati.
Ed ecco che la classe dirigente sarà lì a fare quello che le appartiene anche etimologicamente: dirigo, in latino, ha, come primo significato, appunto, guidare, raddrizzare, cioè portare sulla giusta via qualcosa o qualcuno che se ne è allontanato, guidarlo, aprirgli la strada verso la meta.
La classe dirigente comunista non soffoca, innalza, non opacizza, illumina. E lo fa formando il cittadino, facendogli prendere coscienza di sé, aiutandolo a trovare il modo migliore per raggiungere ciò che è meglio per lui, forte della sua esperienza e lungimiranza. La classe dirigente, tramite la linea di massa, innalza l’individuo e lo spinge a fare il massimo di quello che può. Lo spinge a conoscersi, a sperimentarsi, a interrogarsi.
Lo spinge ad elevare anche chi lo circonda, a far sì che una voce diventi un coro. E che il coro, insieme, crei una meravigliosa melodia.
Come il direttore di un coro, il partito dà il segno, gesticola e guida. Ma poi sono i coristi che cantano. La figura del direttore si annulla di fronte all’abilità del coro. Eppure egli è essenziale.
Così la classe dirigente, i cui membri si impegneranno a indicare alle masse la loro strada, a battere il tempo della loro melodia.
Abbiamo bisogno di una classe dirigente. Ne abbiamo bisogno perché siamo miopi, perché da soli, a volte, non riusciamo a vedere il nemico. Perché siamo analfabeti e non riusciamo a leggere il codice della Storia. Perché abbiamo bisogno di tutelarci e di conoscere quello che ci spetta e cosa ci viene invece tolto.
E per chi non è né miope né analfabeta, la classe dirigente è un punto fisso, un maestro che indirizza e ispira, senza abusare del proprio potere ma usandolo per incoraggiare al socialismo, quello che le masse spontaneamente vorrebbero (ma che non sanno di volere).
Laura P.
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Ai compagni che vogliono essere e fare i comunisti
I comunisti devono diventare la nuova classe dirigente delle masse popolari
Nel nostro paese ci sono già oggi migliaia i compagni che aspirano al socialismo e che sinceramente si dicono e vogliono essere comunisti. Alcuni di essi, quelli in qualche modo consapevoli della necessità di un partito comunista che guidi le masse popolari a instaurare il socialismo, guardano al primo PCI: al PCI della vittoria contro i nazifascisti, al PCI delle conquiste di civiltà e benessere, al PCI che nelle elezioni europee del 1976 aveva addirittura sorpassato la DC in numero di voti. Da qui l’adesione a partiti che si riallacciano chi al PCI dei “veri comunisti” come Secchia, chi al PCI di Togliatti, chi a quello di Berlinguer: dal PC di Marco Rizzo al PCI di Mauro Alboresi fino al PRC di Maurizio Acerbo e ad alcuni altri dei frammenti del PRC costituito nel 1991 a Rimini da quella parte del PCI che non seguì Occhetto sulla via che avrebbe condotto a Matteo Renzi. In vari casi passano da uno all’altro alla ricerca di quello più “di sinistra”, di quello “veramente comunista”, salvo ripiegare delusi sull’attività sindacale e sulla promozione di lotte contro gli effetti della crisi e sacramentare contro la divisione dei comunisti. Altri, quelli che hanno in qualche modo chiara la necessità della rivoluzione socialista, del salto rappresentato dalla conquista del potere, guardano alle Brigate Rosse e si danno a riorganizzare società segrete oppure fanno i “tifosi”, tengono viva la memoria in attesa che prima o poi qualcuno “riprenda le armi in mano”.
Sono due gruppi (con in mezzo e attorno una gradazione di partiti e organizzazioni che combinano aspetti del primo e del secondo gruppo, fino a quelle che si professano comuniste ma negano la necessità del partito comunista e della rivoluzione socialista) apparentemente molto diversi tra loro, ma quello che ostacola entrambi dall’essere e fare i comunisti è che sono guidati da una concezione sbagliata del ruolo dei comunisti verso le masse popolari. Concepiscono i comunisti come portavoce (sponda politica) delle masse popolari nelle istituzioni borghesi o come promotori delle rivendicazioni e delle proteste delle masse popolari oppure come supplenti delle masse popolari “poco combattive”. Anche i più generosi, sinceri e determinati di loro, non usano ancora o non usano ancora appieno gli insegnamenti del movimento comunista cosciente e organizzato e in particolare della prima ondata della rivoluzione proletaria suscitata dalla Rivoluzione d’Ottobre di cui celebriamo quest’anno il centenario. L’esperienza del movimento comunista ci insegna infatti che per guidarle a instaurare il socialismo i comunisti devono diventare la nuova classe dirigente delle masse popolari.
Cosa significa “classe dirigente”?
Classe dirigente significa classe, gruppo di persone che fa fare alle masse popolari cose che queste spontaneamente (cioè senza l’azione della classe dirigente, sulla base del senso comune con cui si ritrovano e delle condizioni e relazioni in cui si ritrovano) non fanno e non farebbero. Noi comunisti dobbiamo, da qui e fin nella fase socialista, assumere il ruolo di nuova classe dirigente (e in questo rompiamo con gli inganni, la retorica e le illusioni della democrazia borghese che hanno permeato i partiti della Seconda Internazionale e, nei paesi imperialisti, anche quelli della prima Internazionale Comunista). Ma nello stesso tempo ci distinguiamo nettamente e radicalmente dalle attuali classi dirigenti.
Anche le classi degli sfruttatori e degli oppressori sono classi dirigenti. Anche loro fanno fare alle masse popolari cose che altrimenti queste non farebbero. Per indurre le masse popolari a fare quello che va bene agli sfruttatori e agli oppressori, questi fanno leva
- sulla forza (violenza e minaccia della violenza), donde lo Stato, e le funzioni e istituzioni principali, irrinunciabili dello Stato in una società divisa in classi;
- sull’autorevolezza che ereditano e conservano per i compiti a cui come classe dirigente adempiono: sicurezza, protezione da invasioni, opere pubbliche, ordinamento della vita associata (sociale) delle masse;
- sulla religione intesa come concezione del mondo che traduce in un mondo immaginario ma “socialmente oggettivo” le aspirazioni dei singoli (sopravvivere dopo la morte, incontrare cari defunti, giustizia, aspirazioni, soddisfazioni e altro) e in particolare conferma l’ordine sociale di classe (la sottomissione delle classi sfruttate e oppresse agli sfruttatori e agli oppressori è un destino e una virtù che sarà premiata).
A queste tre leve, su cui per millenni si sono rette tutte le società divise in classi, la borghesia da quando si è formata ne ha via via aggiunta una quarta che è specifica del suo sistema di rapporti sociali, che lo rende più forte dei sistemi sociali del passato e nello stesso tempo lo rende transitorio.
Con il sistema produttivo che ha promosso e di cui è alla testa la borghesia ha in larga misura sostituito quello ereditato dalla storia nel cui contesto essa è sorta. Ogni individuo ha quello che lui usa per vivere (anche quello di cui ha strettamente bisogno per soddisfare i più essenziali bisogni animali) solo se la borghesia, che come classe dirige il sistema produttivo e ne è la padrona, assegna a quell’individuo un ruolo nel proprio sistema produttivo, gli assegna un “posto di lavoro”. Il nuovo sistema produttivo è quindi diventato la quarta leva, la più potente leva di cui la borghesia si avvale per imporre la sua dominazione alle masse popolari. Essa prende silenziosamente e pulitamente ogni individuo per il collo: obbedisci, altrimenti morirai. È la leva di dominazione specifica della borghesia. Gli individui non sono in grado di liberarsene individualmente. Per liberarsi da questa catena devono fondersi in un collettivo capace di espropriare la borghesia e costituire una istituzione capace di dirigere il nuovo e ben più potente sistema produttivo. Per raggiungere questo risultato le masse popolari devono ovviamente togliere dalle mani della borghesia anche le altre tre leve di cui questa si avvale, quelle comuni anche a tutte le classi dirigenti del passato. Questa trasformazione è la rivoluzione socialista e poi la transizione dal capitalismo al comunismo, la fase socialista della storia umana (per attenersi al linguaggio introdotto da Marx in Critica al Programma di Gotha -1875).
In cosa consiste il ruolo dirigente dei comunisti verso le masse popolari?
Le masse popolari in linea di massima, a causa delle condizioni pratiche in cui sono relegate dal ruolo loro assegnato nella società borghese, non comprendono questo corso delle cose: altra è la concezione del mondo a cui sono formate. In più, da quando ha creato le condizioni che rendono possibile e (per una serie di motivi che qui non illustro) necessaria l’instaurazione del socialismo, la borghesia fa di tutto per impedire che le masse popolari comprendano questo corso delle cose. Da qui il regime di controrivoluzione preventiva (MP cap. 1.3.3) e le tre trappole (vedasi La Voce n. 54, pagg. 17-19). Ma, per quanto faccia, la borghesia non è in grado di impedire completamente e a tutti una comprensione avanzata del corso delle cose: noi comunisti ci distinguiamo dal resto delle masse popolari proprio perché ognuno di noi, grazie a casi fortuiti della sua formazione (anche per questo l’adesione al (n)PCI è individuale), al particolare sforzo intellettuale e morale che ognuno di noi fa e alla scuola del Partito che ogni comunista frequenta, raggiunge una comprensione di questo corso delle cose abbastanza avanzata per entrare a far parte della nuova classe dirigente e compie quella trasformazione della propria concezione del mondo, della propria mentalità e in una certa misura anche della propria personalità che è necessaria per essere un dirigente efficace. La nuova classe dirigente è quella che porta le masse popolari a fare cose che spontaneamente non fanno, non farebbero e non sono in grado di fare: combattere fino a togliere alla borghesia le quattro leve su cui poggia la sua dominazione. Chiamiamo comunismo la condizione raggiunta quando le masse popolari hanno eliminato quelle quattro leve.
In quello fin qui detto è implicito che il socialismo che noi guidiamo le masse a costruire e il comunismo verso cui va l’umanità, non hanno nulla a che fare con l’allargamento alle masse popolari, a tutti, dei benefici della democrazia bor ghese e dei diritti e privilegi di cui godono i membri della borghesia e che la legge e la cultura della democrazia borghese dichiarano universali. Quindi solo in una certa misura il socialismo e il comunismo corrispondono alle attuali aspirazioni delle masse popolari e al loro attuale senso comune (sul quale la cultura borghese e clericale costruisce il modello immaginario della “natura umana” che Costanzo Preve & simili ben a ragione hanno dichiarato incompatibile con il comunismo: infatti è il senso comune che in larga misura riflette la condizione pratica di sottomissione in cui la borghesia e il clero relegano le masse e la manipolazione delle menti e dei cuori che le classi dominanti fanno). Le condizioni dei membri della nuova società non saranno né quelle di cui godono i membri delle attuali classi sfruttatrici e dominanti, né quelle che esse attualmente impongono ai membri delle masse popolari. Nel comunismo 1. ogni individuo sarà membro a parte intera della società, consapevole e responsabile dei compiti di cui essa ha bisogno e che comunque si è posta e 2. ogni individuo svolgerà con scienza e coscienza il ruolo che la società gli assegnerà. Per ogni individuo la sua libertà coinciderà con la coscienza della necessità di quello che farà. Per questo il libero sviluppo di ogni individuo sarà la condizione del libero sviluppo di tutti (Manifesto del partito comunista del 1848, fine del cap. II).
Noi quindi possiamo svolgere il nostro ruolo storico solo se ci assumiamo la responsabilità di dirigere e ci diamo i mezzi per farlo. Ovviamente non andiamo a dire alle masse: fermatevi, che noi dobbiamo dirigere e voi dovete fare quello che noi diciamo (vedi in proposito la lettera di Marx ad Arnold Ruge, settembre 1843, in Opere Complete vol. 3 – Editori Riuniti 1976, pag. 156). Anche le illusioni democratiche, una volta diventate di massa, sono una grande forza sociale e sarebbe stupido oltre che dannoso da parte nostra metterci contro di essa. Sta a noi comunisti far valere e far accettare dalle masse popolari la nostra direzione (e in proposito rimando allo scritto di Stalin Questioni del leninismo -1926, pubblicato in La Voce n. 54).
In che cosa i comunisti sono come le altre classi dirigenti del presente e del passato e in che cosa i comunisti sono una cosa del tutto diversa dalle altre classi dirigenti del presente e del passato?
Per stabilire la propria direzione sulle masse popolari i comunisti, organizzati in partito, si avvalgono di (fanno leva su) tutti i metodi di direzione che l’esperienza dell’umanità ha elaborato e selezionato. Per noi comunisti il principale di essi è la linea di massa. I comunisti fanno cioè leva principalmente sulla lotta di classe che spontaneamente (cioè in base alle condizioni in cui già si trovano e all’organizzazione e alla coscienza con le quali si ritrovano) le masse popolari conducono per far fare ad esse un passo avanti, un passo che le porta complessivamente (anche se in misura diseguale da classe a classe e perfino da individuo a individuo) a un superiore livello di organizzazione e di coscienza. E qui emerge il ruolo particolare della classe operaia tra tutte le classi delle masse popolari (per maggiori dettagli su questo rimando a La Voce n. 55 pag. 14 e al resto della letteratura marxista). Raggiunto un dato livello, da questo nuovo livello i comunisti partono per ripetere il processo: fanno leva principalmente sulla lotta di classe che al nuovo livello spontaneamente le masse popolari conducono per far loro fare un altro passo avanti. E ogni passo è un superiore livello di organizzazione e di coscienza raggiunto. Il processo si ripete finché la quantità dei passi avanti compiuti diventa qualità: la nuova società, la società comunista è costruita.
Ovviamente solo un pedante interpreta questo nel senso di escludere che nella pratica in particolari circostanze singoli individui, gruppi e interi paesi facciano grandi balzi in avanti o ritorni o addirittura tonfi rovinosi all’indietro: il percorso logico è una cosa, il percorso storico un’altra,(1) benché il primo sia da noi desunto dal secondo e a sua volta da noi usato per orientarci nel secondo, tracciare il nostro percorso e in una certa misura governare il percorso storico. Quello che gli empiristi non fanno: gli intellettuali della borghesia imperialista perché per questa non vi è futuro e quindi per sua natura non può intellettualmente come praticamente che dimenarsi furiosamente come un animale in gabbia, la sinistra borghese perché è intellettualmente e spiritualmente succube scontento della borghesia.
- Per la comprensione del significato delle categorie percorso logico e percorso storico veda si Federico Engels, Karl Marx. Per la critica dell’economia politica (presentazione dell’opera di Marx, 1859, in OC vol. 16 ER 1983 pagg. 472-481, consultabile e registrabile anche all’indirizzo Internet http://www.nuovopci.it/classic/marxengels/crtecpol.html)
Riassumendo e sintetizzando: nel processo che ho descritto, noi comunisti ci costituiamo in classe dirigente guidando le masse popolari a condurre con efficacia la lotta di classe che oggettivamente le contrappone alle classi sfruttatrici e all’eventuale oppressione nazionale e a ogni altra forma di oppressione (di genere, di razza, ecc.). Costruiamo la nostra autorità facendo leva su quello che le masse già fanno e facendoglielo fare meglio: con migliori risultati e con più successo (linea di massa). Anche in proposito rimando allo scritto di Stalin Questioni del leninismo (riprodotto in La Voce n. 54, in particolare al cap. V pagg. 40-55) e alla vasta letteratura del Partito che illustra il quarto dei sei principali apporti di Mao Tse-tung al patrimonio teorico del movimento comunista (La Voce n. 41, L’ottava discriminante).
Lo scopo della nostra direzione non è mantenere le masse asservite e sottomesse a noi, ma farle via via crescere intellettualmente e moralmente accompagnando con la scuola di comunismo le attività che le dirigiamo a compiere. Il nostro obiettivo è farle crescere fino a che si sono emancipate completamente dalla divisione in classi e da tutto quel che (in termini di relazioni sociali, in termini di attività intellettuale e di coscienza, in termini di condotta individuale e di responsabilità individuale: libertà non significa che tutti gli individui fanno ognuno momento dopo momento quello che in quel momento gli piace, ma significa che ogni individuo sa cosa la società sta facendo e perché e fa la sua parte) è connesso alla divisione in classi. Allora saremo nel comunismo e sarà venuta meno la necessità dei comunisti come gruppo sociale distinto dal resto delle masse popolari.
Quindi per alcuni aspetti noi comunisti siamo come le altre classi dirigenti del presente e del passato; per altri aspetti siamo la parte d’avanguardia delle stesse masse popolari e quindi una cosa del tutto diversa dalle altre classi dirigenti del presente e del passato. Quanto ai nostri modi di operare (metodi di lavoro e di direzione), noi impariamo dall’esperienza delle relazioni delle classi dominanti e sfruttatrici con le masse popolari, dall’esperienza delle masse stesse che fanno spontaneamente lotta di classe e dall’esperienza oramai più che centenaria del movimento comunista.
Ognuno di noi comunisti non cerca di imporre alle masse in nome dell’autorità del Partito quello che esse devono compiere: in ogni ambiente e circostanza mostra alla sinistra quello che essa deve compiere (ma lo indica facendo leva sulle sue aspirazioni, la sua esperienza e le circostanze in cui opera che noi conosciamo grazie alla concezione comunista del mondo) e le indica come conquistare a sé il centro e isolare la destra.
Come può un comunista portare alle masse la linea del Partito senza con ciò rivelare che egli è membro del Partito e quindi venir meno alla clandestinità? Egli porta la linea del Partito ma apparentemente si limita a mostrare quello che il corso delle cose rende necessario nel caso particolare (anche se è la concezione comunista del mondo assimilata nel Partito che gli permette di vederlo). Per questo la sua appartenenza al Partito resta clandestina.
Come è possibile che le masse acquistino fiducia in un Partito di cui non conoscono i dirigenti? Le masse acquistano fiducia nel Partito perché constatano che le sue indicazioni le portano alla vittoria, non per la fiducia in questo o quel dirigente. La fiducia che i singoli comunisti, individui e organismi, riscuotono è uno strumento prezioso di sviluppo della lotta di classe e del Partito, ma fondamentale è la fiducia nel Partito. Non è possibile escludere in assoluto che il singolo dirigente devii e tradisca e comunque ogni dirigente è mortale, mentre il Partito durerà fino a quando saremo nel comunismo. Le masse si aggregano (organizzazioni di massa e movimenti) attorno al Partito, è attorno al Partito che costruiscono il nuovo potere e il nuovo Stato.
Per i comunisti partecipare alla lotta politica borghese, promuovere le lotte a difesa delle conquiste strappate in termini di diritti politici e di partecipazione, mobilitare contro ogni passo della deriva della borghesia imperialista verso la mobilitazione reazionaria sono strumenti indispensabili per mobilitare le masse popolari ad avanzare (ognuna di queste lotte corrisponde al senso comune delle masse che ne sono protagoniste), ma il Partito è capace di fare nel corso di esse un’efficace scuola di comunismo solo se si pone come nuova classe dirigente, non si accoda alle masse ma le mobilita su scala via via più larga nella rivoluzione socialista fino a conquistare il potere e instaurare il socialismo (dittatura del proletariato, economia come attività pubblica per produrre quanto necessario a soddisfare i bisogni di ogni individuo e della società, universale crescente partecipazione alla gestione della vita sociale e alle attività specificamente umane).
La rivoluzione socialista non è il risultato delle coscienza e dell’organizzazione spontanee delle masse popolari, la rivoluzione socialista crea e forma la coscienza e l’organizzazione delle masse popolari
Per superare i limiti che il movimento comunista ha avuto nei paesi imperialisti, limiti che gli hanno impedito di giovarsi dell’aiuto dei partiti comunisti dell’URSS diretta da Lenin e da Stalin, della Cina diretta da Mao e di altri paesi e di instaurare il socialismo durante la prima ondata della rivoluzione proletaria, il (n)PCI (e quindi ogni suo organismo) deve porsi come un corpo di combattenti scelti, di combattenti d’elite dell’esercito proletario. Ogni suo membro deve porsi e comportarsi come membro di questo corpo d’elite. Ad esso sono ammesse solo persone disposte ad assumersi compiti particolari e dedite senza riserve alla causa (è un aspetto riassunto nell’espressione “riforma intellettuale e morale”): c’è un salto tra l’insieme delle organizzazioni delle masse popolari e il Partito comunista. Come ben illustrato da Lenin nello scritto I compiti immediati del potere sovietico (in Opere Complete, vol. 27 – Editori Riuniti 1967, pagg. 211-248 e riportato in La Voce n. 48, in particolare nelle pagg. 66-67), il Partito comunista è un corpo d’elite che è strettamente legato alle masse popolari, ma è legato alle masse popolari allo scopo di (e nel senso necessario a) dirigerle a fare la rivoluzione socialista (in un certo senso, si potrebbe dire che è legato alle masse popolari come il volante o il motore è legato all’auto), a instaurare la dittatura del proletariato e a trasformare l’intero sistema delle loro relazioni sociali, la concezione del mondo predominante tra esse, la loro mentalità e i loro costumi (in una parola: a trasformarsi). In definitiva rivoluzione socialista e costruzione del socialismo sono principalmente trasformazione delle masse popolari, da sottomesse a dirigenti, solo secondariamente (ma irrinunciabilmente) anche eliminazione delle classi dominanti: il primo è l’obiettivo effettivo, il secondo è solo ausiliario e complementare benché indispensabile (si stappa la bottiglia ma l’obiettivo è versare il vino). Potremmo anche dire che il Partito comunista è un corpo d’elite che è strettamente legato alle masse popolari come un buon insegnante è legato ai suoi allievi. Non nel senso che è uno di loro. La rivoluzione socialista eleva la coscienza e rafforza e allarga l’organizzazione delle masse popolari, le porta a compiere una riforma morale e intellettuale. La rivoluzione socialista non è il risultato delle coscienza e dell’organizzazione spontanee delle masse popolari. La rivoluzione socialista crea e forma la coscienza e l’organizzazione delle masse popolari. Molti dei giovani che si sono arruolati nella Resistenza non erano comunisti: lo sono diventati combattendo nei ranghi delle formazioni partigiane (dove individualmente o a gruppi erano arrivati per una serie di svariate circostanze di cui qui non mi occupo).
Come già accennato, concepire la rivoluzione socialista come “allargamento alle masse popolari dei diritti e delle procedure della democrazia borghese” (aspirare a una società in cui i proletari godono degli stessi diritti politici di cui godono i capitalisti e i loro complici, un obiettivo utopistico) è stato uno dei limiti fatali del vecchio movimento comunista dei paesi imperialisti.
Pensare che l’egemonia culturale del Partito precede la sua egemonia politica anziché essere un risultato di questa, è la deformazione revisionista del pensiero di Gramsci: la realtà ha mostrato che avviene il contrario.
Il Partito coinvolge le masse popolari nella Guerra Popolare Rivoluzionaria (GPR) e le rende protagoniste della GPR principalmente tramite la linea di massa: individua in ogni ambiente e gruppo la sinistra, la rafforza nella sua tendenza positiva e la mobilita a unire a sé il centro e a isolare la destra in modo che l’intero ambiente o gruppo (o almeno il grosso di esso) traduca in azione pratica la tendenza positiva della sua sinistra. Il risultato è una trasformazione che rende quell’ambiente o gruppo capace, per la coscienza e l’organizzazione raggiunte grazie a quell’azione e alla connessa scuola di comunismo compiuta dal Partito, di un’iniziativa di livello superiore: come la lotta vittoriosa contro il fasci smo aveva reso le masse popolari italiane capaci di instaurare il socialismo o, perlomeno, di fare in quella direzione passi che invece non fecero, per motivi che il Partito ha in altre sedi ampiamente illustrato.
La rivoluzione socialista non è un processo democratico nel senso della democrazia borghese: la democrazia borghese proclama l’eguaglianza di diritti politici, cioè eguaglianza di ruolo nella direzione dello Stato, di persone alcune delle quali sono salariati e altre capitalisti. Proclama cioè una relazione politica incompatibile con le relazioni economiche (economicamente impossibile, nel senso illustrato da Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo in Opere Complete vol. 23 – Editori Riuniti 1965).(2) I comunisti devono essere pienamente consapevoli che la democrazia borghese (cioè eguaglianza politica di proletari e capitalisti) è per le masse popolari, anche nei casi migliori, uno stato precario e transitorio; che la tesi che i diritti della democrazia borghese sono illimitatamente estensibili alle masse popolari è un imbroglio (è un’utopia economicamente irrealizzabile – come dicevo sopra: una relazione politica incompatibile con le relazioni economiche) messo in atto dai revisionisti moderni alla Togliatti, anche se in determinate condizioni (ad es. nel corso della prima ondata della rivoluzione proletaria) effettivamente il movimento comunista ha portato le masse ad avere una maggiore influenza sulle istituzioni della democrazia borghese e a strappare grandi conquiste.
- “La repubblica democratica contraddice “logicamente” al capitalismo, perché “ufficialmente” eguaglia il ricco e il povero. È questa una contraddizione tra la struttura economica e la sovrastruttura politica. Nel mondo imperialista si ha la stessa contraddizione, approfondita o aggravata dal fatto che la sostituzione della libera concorrenza con il monopolio rende ancor più “difficile” la realizzazione di tutte le libertà politiche.
Come si concilia il capitalismo con la democrazia? Mediante la realizzazione pratica indiretta dell’onnipotenza del capitale! I mezzi economici sono due: 1) la corruzione diretta; 2) l’alleanza del governo con la Borsa. (Nelle nostre tesi questo concetto è espresso dove si dice che in regime borghese il capitale finanziario “comprerà e corromperà “liberamente” il più libero dei governi democratici e repubblicani e i funzionari elettivi di qualsiasi paese”.)
Là dove dominano la produzione mercantile, la borghesia e il potere del denaro, la corruzione (diretta o attraverso la Borsa) è “realizzabile” sotto ogni forma di governo, in ogni democrazia.
Ci si domanda che cosa cambia, sotto questo riguardo, allorché dal capitalismo si passa all’imperialismo cioè quando al capitalismo premonopolistico subentra il capitalismo monopolistico.
L’unico cambiamento è che il potere della Borsa si espande! Il capitale finanziario è infatti il capitale industriale ingigantito, che ha assunto le dimensioni del monopolio, che si è fuso con il capitale bancario. Le grandi banche si fondono con la Borsa, assorbendola” (Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo, in Opere Complete vol. 23, Editori Riunioni 1965, pagg.37-45).
Il partito clandestino, il lavoro esterno e le organizzazioni pubbliche
Chiedendo di entrare a far parte del Partito, un compagno si impegna a svolgere i compiti e ad adempiere ai doveri (di formazione, di condotta e di azione) propri di ogni membro di un corpo di combattenti d’elite.
Ogni membro del Partito diventa un professionista della rivoluzione, un combattente della GPR. Ma sono individui concreti che lo diventano, e il Partito accompagna ognuno di essi in questa trasformazione e lo educa a compierla. Non si è professionisti della rivoluzione grazie a un ordine o a una dichiarazione o a un atto di volontà inteso come chiudere gli occhi e gettarsi dalla finestra. Si è professionisti della rivoluzione perché lo si diventa e si vuole diventarlo sotto la direzione del Partito di cui si è membri. I rapporti dei membri del Partito tra loro (compartimentazione a parte) e tra un membro del Partito e il suo collettivo di appartenenza sono regolati dallo Statuto, che riportiamo qui accanto e dai principi illustrati in La Voce n. 55 pag. 36 (Il sistema di direzione).
Non bisogna confondere l’appartenenza al (n)PCI (essere membro di uno degli organismi clandestini del (n)PCI) con la scomparsa dalla circolazione per andare a far parte del Centro clandestino del (n)PCI e delle sue diramazioni (commissioni): questa è solo una delle forme di militanza nel (n)PCI. Un membro del (n)PCI fa il lavoro che il (n)PCI gli assegnerà.
Il (n)PCI è costituito da organismi connessi tra loro ideologicamente (concezione comunista del mondo), politicamente (promuovere e dirigere la GPR per instaurare il socialismo in Italia e contribuire alla seconda ondata della rivoluzione proletaria che avanza in tutto il mondo: oggi promuovere le condizioni per la costituzione del Governo di Blocco Popo lare), organizzativamente (ai termini dello Statuto). L’insieme di questi organismi è clandestino e compartimentato (non è questione di fiducia o sfiducia nell’individuo, ma di difesa dal nemico) e al suo vertice c’è il CC.
Il lavoro esterno del (n)PCI consiste 1. nel reclutare, 2. nel propagandare (concezione del mondo, analisi, linea, parole d’ordine), 3. nel promuovere e dirigere la GPR (non entro qui in dettaglio sulla natura e i metodi della GPR: rimando al MP e alla letteratura del Partito): oggi nell’orientare e dirigere le organizzazioni operaie e popolari e nel moltiplicarne il numero perché costituiscano il Governo di Blocco Popolare.
Una parte del suo lavoro esterno il (n)PCI lo svolge tramite organizzazioni pubbliche: da quelle generate a quelle che nascono spontaneamente (nel senso di indipendentemente dalla promozione fatta dal Partito) tra le masse popolari, stante la posizione in cui la società borghese colloca ogni singola classe delle masse popolari (vedasi ad es. le organizzazioni di categoria), fino anche a quelle promosse dalla borghesia e dal clero (dovunque la borghesia e il clero reclutano masse popolari per servirsene, lì c’è un terreno di lavoro e un potenziale punto di forza per noi).
Esse esistono e operano più o meno sulla base delle condizioni della democrazia borghese restaurate ed estese nel 1945 con la vittoria della Resistenza, codificate nella Costituzione del 1948 e oggetto poi della lotta di classe sviluppatasi fino ad oggi.
Il Partito clandestino ha bisogno delle organizzazioni pubbliche per condurre la sua opera, deve rafforzarle da tutti i punti di vista, favorirne la nascita, crearle: perché ha bisogno che le masse popolari si organizzino. Le organizzazioni pubbliche vanno da quelle saldamente dirette dal (n)PCI (organizzazioni generate) a quelle che il (n)PCI orienta più o meno profondamente tramite la propaganda, tramite membri del Partito che hanno relazioni con esse o ne sono addirittura membri o col metodo delle leve.
La relazione tra (n)PCI e le organizzazioni pubbliche è questione di tattica: varia da organizzazione a organizzazione, da una fase all’altra, da località a località. Ma quanto a concezione e principi, la relazione tra (n)PCI e le organizzazioni pubbliche in cui esso ha affermato la sua direzione, è illustrata dall’articolo Partito clandestino e lavoro legale di Lenin (Opere Complete vol. 18 – Editori Riuniti 1966, pagg. 372-38 e riprodotto in La Voce n. 38, pagg. 26-34).
La lotta di classe è condotta dalle masse popolari sui quattro fronti del Piano Generale di Lavoro (MP cap. 3.5), ma il (n)PCI non crea propri organismi pubblici (organismi generati) su ognuno dei quattro fronti: finché è possibile, si avvale degli organismi che già esistono o che nascono spontaneamente (spontaneamente è da intendere anche qui nel senso che nascono non promossi dal (n)PCI).
Il (n)PCI persegue l’obiettivo di orientare tutte le organizzazioni operaie e popolari e di aggregarle tutte attorno a sé (detto in altre parole, di diventare la forma suprema dell’organizzazione delle masse popolari e il centro del nuovo potere). La scienza della trasformazione della società è una sola, le forme particolari e concrete sono varie: si sperimentano, si correggono e si selezionano. Ma anche la scienza è una cosa (un concreto di pensiero, raffigurazione della realtà nella mente umana) che si sviluppa, tramite la sperimentazione: provando, consolidando quello che dà buona prova di sé e riprovando (eliminando) il resto. L’organizzazione delle masse sfruttate e oppresse si sviluppa in modo non uniforme (dalle masse arretrate e per nulla organizzate su su fino al partito comunista). La concezione comunista del mondo viene assimilata dalle masse gradualmente e in modo non uniforme, per cui in ogni organizzazione vi è lotta tra due linee.
Conclusioni
La crisi generale del capitalismo continua ad aggravarsi e la borghesia imperialista non è in grado di cambiare strada: ogni capitalista deve valorizzare il capitale che amministra, questa legge vincola tutta la borghesia imperialista e contemporaneamente mette ogni gruppo imperialista contro l’altro. Non è possibile porre fine al vortice di crisi, miseria, devastazione ambientale e guerra in cui siamo immersi senza rovesciare il sistema capitalista almeno in alcuni dei maggiori paesi imperialisti, cioè senza un salto della rivoluzione socialista nei paesi imperialisti, senza che almeno uno dei paesi imperialisti rompa le catene della comunità internazionale e in questo modo apra la via e mostri la strada anche alle masse popolari degli altri paesi. L’Italia può essere questo paese, tanto più che è sede del Vaticano, uno dei pilastri del sistema imperialista mondiale.
Il partito comunista si costruisce per stadi
Cosa significa? Leggi Stalin, Il partito prima e dopo la presa del potere (28 agosto 1921) in Opere di Stalin vol. 5 Edizioni Rapporti Sociali. L’articolo è consultabile e registrabile all’indirizzo Internet:
http://www.nuovopci.it/classic/stalin/pdpresa.html
La costruzione del partito comunista nei paesi imperialisti è il passaggio decisivo perché una nuova ondata della rivoluzione proletaria divampi nel mondo su larga scala. Tra i due fattori che rivoluzionano la società attuale (l’attività del Partito e la mobilitazione spontanea delle masse popolari) è l’attività del Partito il fattore decisivo, quello che determina il progresso di entrambi e quindi la velocità alla quale avanza la rivoluzione socialista. La costruzione di un partito comunista all’altezza del suo compito storico (l’instaurazione del socialismo, fase di transizione al comunismo) è quindi attualmente la sintesi di tutta la nostra opera.
A questa opera è chiamato ogni membro e candidato del (n)PCI, che deve lavorare con disciplina, senso di responsabilità, scienza, iniziativa e creatività.
Ernesto V.